Via Di Vittorio

Vivevamo in un minuscolo appartamento all’ottavo piano di un alto palazzone; il tetto era a ridosso del cielo, solcato da grossi uccelli rumorosi diretti a Linate.

Dalla finestra vedevamo il palazzone gemello del nostro – un parallelepipedo di mattoni rossi crivellato di balconi brulicanti di bambini, biciclette e bottiglie- e la ferrovia, su cui correvano i treni per il Sud.

Affacciate al davanzale io e mia sorella- i nasi schiacciati contro i vetri- ammiravamo per ore la vita che scorreva davanti a noi.

C’erano gli antennisti, spericolati trapezisti sui tetti: come al circo aspettavamo con ansia un inciampo, una caduta.

Le sorelle Parente, con cui inscenavamo complicate pantomime speculari da una finestra all’altra, erano al sesto piano di fronte, e avevano la nostra stessa gradazione di età, parentela e rivalità.

Il portinaio spazzava  stancamente il cortile davanti alla guardiola e i ragazzini gli mulinavano attorno con allegra ferocia, facendo a gara per scompigliargli i mucchi di rumenta faticosamente raccolta.

La domenica mattina la casa rimaneva immersa a lungo in rituali di calda oziosità.

Io leggevo a letto fino a consumarmi gli occhi, alla luce caliginosa che filtrava appena dalle tapparelle ancora pigramente abbassate.

Sandra, al piano di sotto del nostro letto a castello, cantilenava per ore filastrocche senza senso, più per un invincibile desiderio di  disturbo che per vero soggettivo piacere.

Dalla camera dei miei giungeva il rumore cadenzato della testiera del lettone contro il muro; solo da adulta riconobbi tardivamente quell’indizio di sesso coniugale mestamente tranquillo, trafugato alla routine feriale e alle inevitabili intrusioni filiali.

Quando decidevo di porre termine alla mia evasione libresca, scendevo silenziosamente la scaletta del letto a castello, e mi avventavo di sorpresa sulla sagoma avvolta fra le coperte del piano inferiore; mi fingevo ora ladra ora assassina, e Sandra gridava come un’aquila, come da copione.

A volte la trovavo nascosta in una tenda da indiani che fabbricava con le lenzuola agganciandole alla rete del letto sovrastante; Sandra vi si accucciava come una squaw e mi accoglieva con un frasario punteggiato di augh e di verbi all’infinito. Io la torturavo come un cowboy crudele, immobilizzandole le mani e facendole il solletico fino allo sfinimento.

 

 

Anni dopo- avevamo traslocato in un appartamento di metratura e freddezza infinitamente più grandi- mi capitò spesso di pensare a quel  nascondiglio infantile di Sandra.

La nostra stanza – quindici metriquadri di vita domestica che pensavo mi appartenesse in esclusiva per sempre- venne violata dagli onori della cronaca, come teatro del sequestro Boroli. (Negli anni settanta erano di gran moda i sequestri di persona).

Nella nostra cameretta – chissà, forse nello stesso pertugio di Sandra- venne tenuta segregata una facoltosa donna incinta, scarcerata dietro liberazione di un riscatto miliardario. Ma la banda di malviventi venne ritrovata facilmente, proprio grazie a quel nascondiglio facile da scoprire come in un gioco infantile. La polizia aveva cercato e identificato agevolmente una casa vicina a una linea ferroviaria e a un aeroporto, fidandosi del racconto della donna rapita, che aveva  ascoltato la stessa  colonna sonora che aveva scandito  la nostra infanzia.

 

~ di aliceoltrelospecchio su dicembre 10, 2011.

2 Risposte to “Via Di Vittorio”

  1. E’ una pagina del tuo diario che trovo molto piacevole da leggere perchè con il tuo modo di descrivere le cose le rendi visibili.
    E’ un “corto” (adesso vanno molto di moda nel cinema) letterario di qualità.
    Un caro saluto
    Gianlù

  2. Non commento sempre, ma ti leggo sempre con piacere…

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