La nuda verità

Madonna di Munch

Il caso regala spesso fortuna e disgrazie con sapiente alternanza.
In quei giorni, però, io credevo che il fato si accanisse contro di me e maledicevo la mia sorte.
Mi ritrovai un gesso alla gamba, trenta giorni di prognosi e un confino obbligato nel mio appartamento-prigione. E poi un’ ingiunzione del mio editore: la consegna del romanzo entro la fine del mese, o la chiusura definitiva dei rubinetti, con la rescissione del contratto.
Avevo già ottenuto tutti gli anticipi possibili sui diritti di stampa e quasi finito i miei mezzi di sussistenza.
L’immobilità forzata era una condanna addizionale all’obbligo di creatività a scadenza, poiché veniva meno la mia principale fonte d’ispirazione : la vita degli altri.
Non potevo girovagare fra i vicoli della mia città, rubando conversazioni sussurrate all’ingresso delle chiese, baci furtivi negli androni, litigi scaturiti per futili motivi all’interno di bar sovraffollati. No, ero inchiodato come James Stewart alla finestra sul cortile, e non c’era neppure una Grace Kelly qualsiasi ad alleviarmi la pena di quegli arresti domiciliari.
Tutte le storie che potevo rubare erano ambientate nell’angusto spazio d’osservazione fra il mio appartamento, le scale , il casellario della posta e la guardiola della portineria. Il mondo era ben piccolo, visto da lì, e la mia immaginazione non bastava ad ampliarlo a dovere. Correvo dietro ai passi dei bambini con i loro zaini carichi di compiti e spensieratezza, ma mi attardavo più volentieri ad osservare le madri. Erano donne svelte ed interessanti, di cui era bello immaginare la vita segreta: il sorriso fugace nello specchio di una vetrina, la civetteria di una gamba accavallata con grazia nel sedile di un metrò, il piacere furtivo di una sigaretta condivisa con un collega davanti alla macchinetta del caffè.
Osservavo le bionde fragili e perfette, impeccabili in abiti e pettinature lisciate dalla consuetudine. Ammiravo le brune scarmigliate e distratte, con tacchi alti e tintinnanti sull’asfalto sconnesso dell’androne. Di una avevo immaginato il nome, Clara, ma non avrei saputo dire l’età, che cambiava ogni giorno con l’umore e i vestiti. A volte portava i capelli raccolti in uno chignon casuale e scomposto , e indossava antiquate gonne a fiorellini e golfini di cachemire dai colori pastello, e aveva la sfacciata noncuranza dei vent’anni. Nei giorni di pioggia indossava labbra accese e jeans attillati sul sedere generoso, e pancia scoperta, e rughe di tenerezza, e aveva trentotto anni. Avrei voluto conoscerla, ma non biblicamente. Avrei voluto conoscerla abbastanza per amarla e scrivere la sua storia.
Il mio sguardo la seguiva oltre l’orizzonte delle scale e le affibbiava una vita avventurosa e impossibile, fatta di molti viaggi e pochi ritorni, di arte e di passione.
Il mio romanzo si attardava in spirali d’osservazione e di fumo, e procedeva stancamente coi ritmi di un invalido costretto ad un insolito languore, di giorno. La notte continuavo la mia opera di spionaggio delle altrui esistenze, ma non potendo sforzare la vista nel buio irrimediabile della strada, affinavo l’udito oltre misura, e aguzzavo le orecchie nella speranza assurda di captare un litigio, una telefonata, o almeno il fragore elettrodomestico che testimoniasse la vita al di là dei muri che limitavano i confini di quella mia prigione dei sensi e del reale. Per lo più, però, imparai ad ascoltare il silenzio e a dargli forma, ed ad animarlo di personaggi che andavano ad abitare il mio romanzo.
Fu nel tendere l’orecchio alla quiete, che imparai a riconoscerla : mi innamorai della sua vita e della sua voce, senza capire che era l’inizio di una passione più irrimediabile di quelle che hanno un oggetto ben definito. Lei abitava sopra di me, e cantava. Sognai che avesse le fattezze di Clara fin dalla prima volta, quando la udii intonare il suo dissenso in un bisticcio col fidanzato. Che fosse il fidanzato non c’erano dubbi, perché la voce di Clara aveva, nel lamentare il disaccordo, le note e il timbro dell’amore e della tenerezza. Fui geloso di lui, dal primo istante, ma ancor più fui preso dall’incanto di quella voce di contralto morbida e forte.
Era una voce animata di vita propria , esisteva senza corpo perché aveva corpo essa stessa, ed era un corpo sinuoso ed eccitante, nudo. La ascoltavo accompagnare il pianoforte e improvvisavo il mio desiderio sui suoi vocalizzi .E scrivevo, scrivevo, scrivevo. Avevo ritrovato la mia vena creativa, che si alimentava ora nell’ascolto immobile e sospeso, dopo essersi nutrita per anni di immagini e movimento. Avevo smesso di spiare Clara e le altre donne dalla mia finestra sul cortile, perché i miei sensi e la mia fantasia erano ricolmi di canzoni. Clara on my mind, letteralmente.
Una notte la sentii far l’amore e quasi mi parve d’impazzire; lei cantava anche a letto, e il suo canto di piacere era insopportabilmente sensuale e visibile.
Sentivo il bisogno di liberarmi della mia ossessione, ma scriverne non mi bastava, se non potevo renderne partecipe chi l’aveva originata.
Presi, per sfida e gioco, a lasciare pagine del mio romanzo sotto la porta del suo appartamento. Erano tasselli della sua storia che indovinavo dalla musica e dai passi che mi camminavano sopra la testa, e sui quali regolavo amori , abbandoni e vicissitudini dei miei personaggi. Lei, naturalmente, era la protagonista principale.
Non mi sorpresi, quando – come in risposta alle parole scritte che le avevo dedicato- lei mi offerse la sua prima canzone. Parlava di un cantastorie solitario, con lunghi capelli e grandi speranze. Parlava di me!Era   l’io narrante del mio libro, un uomo che aveva i miei stessi pensieri e la mia stessa impotenza, che lo vincolava alla fantasia come a una necessaria esperienza sostitutiva della realtà.Essere riconosciuto- finalmente- mi diede sollievo e rinnovato coraggio.
Da allora cominciammo un duetto insolito, fatto di discorsi scritti e cantati, con una bizzarra commistione fra vita agìta e vita immaginata. Ogni notte io ripartivo dalla canzone che lei cantava di giorno, e lei riprendeva a cantare la storia dal punto in cui avevo interrotto il mio romanzo.
Si avvicinava la fine del mese; incombeva l’ultimatum del mio editore e l’appuntamento per la rimozione del gesso. Temevo la fine della mia felicità limbica, e dilazionavo l’epilogo della vicenda narrata nel libro. Che dovevo fare dei miei personaggi? Il cantastorie malinconico avrebbe dovuto morire, forse, o perdere la voce. E Clara? Dovevo farla partire per un Paese lontano?Farla innamorare dell’impotente, cioè di me, sembrava un finale al contempo troppo scontato e troppo improbabile. Nella vita vera le donne impetuose come Clara non si innamorano di uomini irresoluti e sognatori…
La paura mi paralizzava l’anima e la penna.
Poi lei cantò una canzone di Francesco Renga. La biasimai per quella sua scelta infelice, così poco sofisticata , così poco somigliante alla sua vocalità estesa e sfaccettata. Poi ne ascoltai il testo e compresi. Era un testo insulso e credibile, un tipico testo da canzonetta, realistico e senza pretese. Diceva della nuda verità, e della paura di affrontarla. Parlava, ancora una volta, di me. O forse di noi. Allora scrissi per l’ultima notte. Scrissi febbrilmente, in preda a un furore definitivo, fino alla parola “FINE”. Poi corsi alla sua porta, e suonai il campanello. Lei aprì…Era vestita solo di un sorriso, e io l’abbracciai, senza una parola.La nuda verità.

~ di aliceoltrelospecchio su dicembre 10, 2011.

5 Risposte to “La nuda verità”

  1. a volte è invisibile il limite tra realtà e immaginazione.. e a volte non esiste.
    bellissimo questo racconto, nel ritmo, nella descrizione della genesi di un desiderio, nel suo pulsare di vita.

  2. Molto ben descritto questo incontro.
    Hai una penna leggera che scorre veloce e si arriva alla fine senza accorgersene.
    Proprio brava. Dovresti davvero darti da fare per pubblicare il tuo romanzo famoso…Gianluisa

  3. salvato da francesco renga può essere un problema che segna per la vita, però:))
    p.s. non c’entra nulla ma protesto formalmente per la scomparsa della svagata sulla panchina a sinistra.

  4. “penna leggera”, vero.
    bello.
    🙂

  5. Mi andava di rileggere questo bel racconto.
    Un abbraccio a te e a D.
    F.Gianluisa

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